
L’idea che viviamo solo per morire potrebbe sembrare cinica e persino deprimente, ma se riflettiamo profondamente, emerge una verità sconcertante. Dalla nascita alla vecchiaia, la vita sembra essere una serie di preparazioni per l’inevitabile fine. Ogni decisione, ogni azione che compiamo, ci avvicina un passo alla morte, che funge da ultima destinazione di questo lungo viaggio chiamato vita. Ma se è così, perché evitiamo di parlarne apertamente? Forse perché l’idea di vivere solo per morire destabilizza una delle più grandi illusioni a cui ci aggrappiamo: l’immortalità simbolica. Ci illudiamo di poter vivere per sempre attraverso il lavoro, le relazioni, i ricordi che lasciamo agli altri.
Ma alla fine, la domanda che ci colpisce tutti è: stiamo davvero vivendo o ci stiamo semplicemente preparando alla fine?
La società moderna ci insegna a programmare il futuro, a costruire un percorso di vita che segua determinate tappe: studio, carriera, famiglia, pensione. Questo modello sembra offrirci un senso di sicurezza, come se seguire queste fasi possa garantirci una vita piena e soddisfacente. Ma in realtà, siamo solo in ritardo rispetto alla verità fondamentale: la vita stessa è una preparazione alla morte. E se riflettiamo su questo, viene spontaneo chiederci: tutto ciò che facciamo ha realmente importanza? Oppure stiamo riempiendo il nostro tempo con attività e obiettivi che non fanno altro che distrarci dalla consapevolezza della nostra mortalità?
L’illusione della vita eterna è antica quanto l’umanità. Dai miti sull’immortalità agli avanzamenti scientifici moderni che promettono di allungare la vita, continuiamo a cercare modi per sfuggire alla fine. Ma nessuno, neanche la tecnologia più avanzata, può salvarci dalla nostra condizione mortale. Il problema non è solo biologico, è anche psicologico. In quanto esseri umani, siamo programmati per evitare il pensiero della nostra fine. Proviamo un terrore profondo al pensiero che un giorno tutto ciò che conosciamo e siamo finirà. Così, ci ancoriamo alle illusioni: pensiamo che accumulare denaro, ottenere riconoscimenti, lasciare un’eredità di qualche tipo ci renda, in qualche modo, immortali. La psicologia della morte, o tanatologia, ci dice che molti dei nostri comportamenti quotidiani sono meccanismi di difesa contro la consapevolezza della fine. Prendiamo, per esempio, la nostra ossessione per il lavoro. In apparenza, lavoriamo per avere una vita migliore, ma sotto la superficie c’è un bisogno costante di riempire il vuoto, di evitare i momenti di quiete in cui potremmo essere costretti a confrontarci con la verità: la vita è finita prima che ce ne accorgiamo.
Allora, cosa significa vivere?
Se sappiamo che la morte è l’unica certezza, come possiamo dare un senso al tempo che ci è concesso?
Qui entra in gioco una delle più grandi domande filosofiche e psicologiche di tutti i tempi. Viviamo in una cultura che misura il valore della vita in base alla produttività e al successo. Ci viene detto che dobbiamo “fare” per “essere”. Ma se smettessimo di fare e ci limitassimo a esistere? Se accettassimo la nostra mortalità e, anziché cercare di fuggirla, imparassimo a convivere con essa?
Vivere davvero potrebbe significare abbandonare l’illusione di avere tutto sotto controllo e accettare l’incertezza della vita. Non possiamo sapere quanto tempo ci rimane, né possiamo controllare il nostro destino. Ma possiamo decidere come vivere ogni giorno, come scegliere di passare il nostro tempo. Eppure, la maggior parte di noi si aggrappa a modelli di vita predefiniti che non fanno altro che ritardare questo confronto inevitabile con la morte. Ci preoccupiamo di avere una carriera di successo, una casa perfetta, relazioni ideali, come se tutto questo potesse proteggerci dalla nostra fine. Accettare che stiamo solo preparandoci a morire non significa vivere con disperazione, anzi. Può essere un invito a vivere con più intensità, a fare pace con il fatto che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo e che, proprio per questo, dobbiamo apprezzare ciò che abbiamo. La psicologia positiva ci insegna che vivere nel presente, essere consapevoli del “qui e ora”, è una delle chiavi per una vita più piena. Ma vivere nel presente non significa dimenticare che la morte è sempre in agguato. Al contrario, significa affrontare la nostra paura della fine e utilizzarla come una motivazione per vivere con autenticità. Quando ci liberiamo dell’illusione di poter controllare la nostra vita e la nostra morte, iniziamo a vedere le cose in una prospettiva diversa. Le preoccupazioni quotidiane che sembravano così importanti diventano meno rilevanti. I conflitti che ci sembravano insormontabili perdono la loro gravità. Ciò che rimane è l’essenza della vita: esperienze, relazioni, emozioni.
Non possiamo portare nulla con noi quando moriamo, quindi perché passare la vita accumulando ciò che non possiamo trattenere?
Alla fine, l’illusione della vita è proprio questo: l’idea che siamo qui per costruire qualcosa di eterno. Ma la realtà è che stiamo solo vivendo una serie di momenti, ciascuno dei quali ci avvicina alla morte. E forse, una volta accettata questa verità, possiamo iniziare a vivere davvero.


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